Binari a Santhià  

  PRESENTAZIONE di Luigi Zai

 Il titolo di questo libro non rende giustizia del suo contenuto. Probabilmente nessun altro titolo, in quanto sintesi lapidaria, potrebbe farlo, dal momento che quest’opera accurata e ricca di dettagli, vergata in stile coraggioso e controcorrente, unisce e intreccia diversi argomenti, svariati punti di vista (storico, turistico, tecnico, ambientale, economico, anedottico…) e molteplici livelli di analisi, che avrebbero  benissimo potuto dar luogo a singole trattazioni autonome.

Entro tale cornice, Santhià, antico e trafficato crocevia del territorio vercellese,  non è che il punto d’avvio di alcuni percorsi concettuali che si irradiano e si prolungano, fino a lambire i confini nazionali. Per questa ragione, lo sforzo compiuto dall’autore può essere gradevolmente apprezzato da tutti, anche se in modi diversi nelle sue parti, a seconda degli interessi personali di ciascuno.

Se lo scenario che fa da sfondo è principalmente quello del Piemonte Orientale, il protagonista assoluto è il treno, con il fascino proprio delle atmosfere d’altri tempi, portatore non solo di merci e persone, ma anche di folklore e suggestioni emotive suscitate dai ricordi personali, disseminati qua e là, ma presenti soprattutto nella postfazione. Tutti aspetti che pescano nel passato e sfrecciano verso il futuro. L’autore, infatti, non si crogiola nell’elegia nostalgica di qualcosa che è irrimediabilmente sepolto nel passato, ma si diffonde a disquisire con cognizione di causa di Alta Velocità (con un corredo di dettagli tecnici sulla sua realizzazione di estremo interesse) e di progetti di nuove connessioni, con le varie ipotesi di ricaduta sul piano socio economico, che un economista competente come Mario Matto non poteva certo trascurare. In ogni caso, si avverte costantemente la presenza, lungo tutto l’asse della narrazione, visto lo stile colloquiale del testo, dell’effetto traumatico riconducibile al lungo processo di trasformazione delle Ferrovie italiane, nel loro passaggio da ente statale a moderno gruppo societario, vale dire, da pubblica istituzione con funzione sociale a comune attore presente sulla scena del mercato. Le reti ferroviarie, fin dalla fine Ottocento, in tutto il mondo occidentale, hanno avuto rilevanza per due aspetti: quello socio-economico, connesso all’espansione della mobilità individuale e dei trasporti delle merci, e quello culturale, legato ad un certo stile di vita, a tutto un universo di significati e di emozioni, come, tra l’altro, una ricca produzione cinematografica ha ben ha saputo esprimere, dove il treno occupava il centro della scena. Per non parlare della “cultura ferroviaria” come sinonimo di “Grande Famiglia” che ha accolto intere generazioni di ferrovieri e simpatizzanti, con i suoi riti e le sue ricorrenze (la festa della Befana, le attività del Dopolavoro, la giornata del Ferroviere, la colonia per i ragazzi,  la gloriosa testata di Voci della Rotaia, i concorsi per l’abbellimento delle stazioni, la fruizione dei biglietti gratuiti…) e perfino il suo linguaggio (con termini tecnici specifici e curiosi, come “accelerato”, che ha finito per indicare il treno più lento, o gergali, come quello di “maestro” per macchinista…). Riti e linguaggio che hanno fatto sì che, fino ad una certa data, molti ferrovieri avvertissero un forte senso di appartenenza e, di conseguenza, una intensa motivazione, come se rappresentassero un corpo speciale della Nazione, investito di una missione sociale. Una realtà che, purtroppo, nel tempo tendeva a sclerotizzarsi e a restare indietro rispetto al processo di modernizzazione del Paese, pur avendo sviluppato un rilevante patrimonio di know how specifico, che le frequenti successive riorganizzazioni e frettolosi pensionamenti anticipati hanno in gran parte disperso, ignorando che sarebbe stato difficile reinventare tutto in tempi brevi e senza oneri aggiuntivi. 

Sono considerazioni che solo chi è figlio d’arte, come lo sono l’autore e il sottoscritto, può comprendere appieno, valutando nel giusto modo sia le luci che le ombre di un’epopea che sicuramente  è finita. Restano numerosi appassionati viscerali a coltivare un interesse che va dal semplice piacere di documentarsi su tutto quanto possa riguardare il mondo ferroviario al fermodellismo, al collezionismo, ai viaggi su linee pittoresche, al ritrovo in occasione di celebrazioni, fino alla guida simulata sul computer di treni realmente esistenti. In questo modo, costoro tengono alta, un po’ come fanno i “veci” alpini, la fiaccola di una cultura che potrebbe inesorabilmente esaurirsi, ma anche rivitalizzarsi entro una propria nicchia culturale.

Di tutti questi e di tanti altri aspetti il libro offre una documentazione rigorosa, che potrà diventare una base preziosa per non dimenticare, compresa una interessante e meticolosa descrizione del materiale rotabile in servizio sulle linee santhiatesi e l’ampio excursus sulla sorella minore della ferrovia, la tramvia extraurbana, di cui in Piemonte esistevano diverse linee.

Conclude l’opera un interessante capitolo sul turismo ferroviario, tutt’altro che fuori moda, dal momento che si inserisce nel più che mai attuale filone dell’economia “sostenibile”.  Turismo che l’autore, in armonia anche con il lessico adottato dai provvedimenti di politica europea nel campo della mobilità, preferisce definire, “dolce”, per sottolinearne il lato positivo e gentile, piuttosto che “faticoso”, come sembrerebbe suggerire il termine “sostenibile”. Un turismo “slow”, direbbe forse Carlo Petrini. Lento, come l’incedere di certi trenini delle vali alpine, che ci inducono a fare dello spostamento su rotaia il cuore stesso del viaggio, con il gradevole susseguirsi di sensazioni intrecciate a pensieri che affiorano, mentre ci si affaccia a porzioni di mondo che già fuggono nel momento stesso in cui prendiamo ad ammirare, metafora della vita e del viaggio che in essa si compie.


Ultimo aggiornamento : 12/11/2006